Giulio Chinappi
La rivolta giovanile esplosa contro il divieto dei social e la corruzione ha rapidamente travolto l'establishment: 19 morti, il Parlamento dato alle fiamme e le dimissioni di Oli. Dietro la crisi emergono rivalità geopolitiche, il ruolo di media e ONG e il nodo Cina-India.
La sequenza degli eventi che ha trascinato il Nepal in una crisi politica di portata storica è ormai nota. Nei primi giorni di settembre, decine di migliaia di giovani - studenti in uniforme, lavoratori precari, cittadini digitali della cosiddetta "Generazione Z" - sono scesi in piazza a Kathmandu per protestare contro la corruzione e contro la decisione del governo di bloccare decine di piattaforme di social media. Le manifestazioni, nate come mobilitazione civile organizzata dall'ONG Hami Nepal, ben presto sono degenerate in scontri con le forze dell'ordine: i dimostranti hanno sfondato le barricate e sono penetrati nel complesso parlamentare, mentre la risposta della polizia e delle forze di sicurezza ha incluso l'uso di gas lacrimogeni, proiettili di gomma e - secondo numerose testimonianze raccolte sul posto - anche munizioni da fuoco vere. Il bilancio ufficiale parla di diciannove morti e centinaia di feriti. Nel giro di 48 ore, la protesta ha assunto proporzioni tali da costringere alle dimissioni il primo ministro KP Sharma Oli; il parlamento è stato dato alle fiamme, le residenze di molti politici sono state attaccate e un coprifuoco indefinito è stato imposto, con l'esercito sceso per le strade di Kathmandu per ristabilire un ordine che appariva ormai fuori controllo.
Certamente, la dimensione immediata della crisi - rabbia giovanile di fronte a disuguaglianze lampanti, alla scarsa prospettiva occupazionale e a scandali di corruzione reiterati - non può essere sottovalutata. Il ritratto emerso dai reportage locali e internazionali è quello di una generazione che percepisce come inaccettabile che i figli dei potenti (i cosiddetti "nepo kids") ostentino vite lussuose mentre la maggior parte della popolazione convive con un reddito pro capite tra i più bassi della regione e la fuga massiva di giovani lavoratori all'estero. Anche fattori tecnici - l'interruzione improvvisa dell'accesso ai principali social media in un paese con ampia diaspora che si affida a quelle piattaforme per comunicare - hanno dato alla protesta una carica emotiva e operativa immediata.
Andando oltre questa lettura superficiale, tuttavia, dobbiamo analizzare una versione diversa dei fatti, quella che attribuisce alle dinamiche internazionali - e in particolare all'attività di ONG, think-tank e piattaforme digitali statunitensi - un ruolo centrale nell'innescare e amplificare le mobilitazioni. Secondo una serie di commentatori e materiali circolati nei giorni della crisi, gruppi per i diritti umani finanziati dagli Stati Uniti e alcune piattaforme social con sede negli USA avrebbero agito come vettori del dissenso, sostenendo e amplificando messaggi antigovernativi che, nel caso del Nepal, hanno contribuito a coagulare la protesta giovanile. Ancora più incisive sono state le accuse secondo cui gli avvenimenti nepalesi si inscriverebbe in un disegno geostrategico più ampio, finalizzato a creare o alimentare tensioni in Stati geograficamente e politicamente sensibili per indebolire governi che si orientano - anche solo parzialmente - verso l'asse sino-russo o cercano un avvicinamento alla Cina.
Va poi ricordato che il Nepal, dopo la lunga guerra civile e la caduta della monarchia, ha adottato dal 2008 la forma repubblicana e una Costituzione post-monarchica con marcate istanze di carattere progressista e socialista, con lo stesso KP Sharma Oli che era il leader del Partito Comunista del Nepal (Unificato Marxista-Leninista). Oggi, tuttavia, si levano persino richieste di ritorno alla monarchia da parte di alcune correnti, un fenomeno che molti osservatori interpretano non solo come nostalgia istituzionale, ma anche come tentativo di indebolire il fronte politico socialista mondiale e, indirettamente, le relazioni strategiche che Kathmandu stava costruendo con Pechino.
Questa interpretazione geopolitica prende spunto da alcuni elementi di fatto e di tempistica. Innanzitutto, la crisi è esplosa proprio mentre Oli era in viaggio in Cina, essendosi recato prima a Tianjing per il vertice dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e poi a Pechino per le celebrazioni degli 80 anni della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. In quest'occasione, il Primo Ministro nepalese ha espresso sostegno per le iniziative cinesi a livello regionale, tentando di rafforzare il ruolo del Paese himalayano all'interno della Belt and Road Initiative. Per gli analisti che meglio comprendono il disegno geopolitico statunitense, la coincidenza temporale fra l'intensificarsi dei rapporti con la Cina e la deflagrazione interna offre uno spunto per sospettare che il contesto geopolitico abbia giocato un ruolo - diretto o indiretto - nell'accelerare certe dinamiche politiche. Del resto, eventi simili erano avvenuti lo scorso anno in Bangladesh e, quasi negli stessi giorni delle vicende nepalesi, in Indonesia, sempre in concomitanza con visite dei leader di quei Paesi a Pechino.
Proprio per questo, alcuni analisti stanno iniziando a parlare di un'ondata di "rivoluzioni colorate" in Asia, volte proprio a destabilizzare la cooperazione cinese nella regione e a contrastare il riavvicinamento tra Cina e India, proprio i due giganti economici e demografici che circondano il Nepal. Per questo, alcune caratteristiche ricorrenti meritano attenzione e non possono essere evitate dallo sguardo dell'analista geopolitico. Per prima cosa, come detto, la sincronizzazione tra eventi diplomatici e ondate di protesta che ha colpito non solo il Nepal ma anche altri paesi della regione in anni recenti, come nei casi citati di Bangladesh e Indonesia, in cui mobilitazioni popolari si sono sovrapposte a fasi di rimescolamento geopolitico, con impatti sulla stabilità governativa. Secondo, la natura ibrida della pressione imposta da Washington, che non si affida più solo sanzioni o colpi di stato tradizionali, ma piuttosto ad una combinazione di campagne mediatiche, mobilitazioni online e sostegno a movimenti civici, che insieme costruiscono una forza di pressione difficile da ricondurre a singoli attori statali ma estremamente efficace. Terzo, l'innegabile esistenza di un terreno interno fertile per tali spinte: un alto tasso di disoccupazione giovanile, frustrazione sociale prolungata e scandali di corruzione offrono un combustibile umano che può essere rapidamente politicamente incanalato.
Dal punto di vista strategico, per concludere, il caso del Nepal pone una domanda cruciale: come si difende la sovranità informativa ed economica di un Paese in un'epoca in cui reti globali, piattaforme e ONG transnazionali possono catalizzare eventi locali con effetti sistemici? Le risposte non sono semplici e vanno dall'adozione di regole chiare per le piattaforme straniere (registrazioni, referenti locali, regolazione sui contenuti) fino a forme di diplomazia che tengano conto di questi nuovi strumenti di influenza. Tuttavia, il governo nepalese stava tentando proprio di fare in modo che le piattaforme social rispettassero le leggi del Paese, con le conseguenze che abbiamo visto.
In assenza di prove definitive sulla responsabilità di attori esterni per l'escalation in Nepal, resta legittimo e necessario sollevare domande e approfondire indagini che chiariscano fino in fondo il rapporto fra strategie geopolitiche e mobilitazioni popolari. Solo così si potrà comprendere se, oltre alla rabbia dei giovani nepalesi, si sia manifestata una strategia di destabilizzazione regionale che utilizza strumenti ibridi e veicoli civili per conseguire fini geopolitici.